LA STORIA

La viticoltura novarese può vantare tre millenni di storia. A Castelletto Ticino nell’ambito della “Cultura di Golasecca”, tra la fine del VII secolo a.C. e gli inizi del VI, sono stati ritrovati i primi vinaccioli di vite coltivata.È in epoca romana che la coltivazione della vite si diffonde e si consolida: nel “pagus agaminus”, una circoscrizione territoriale con centro principale a Ghemme, i ritrovamenti archeologici di anfore vinarie, vasi e coppette dimostrano l’importanza della viticoltura, che è ricordata anche da Plinio nella sua Naturalis Historia (I secolo d.C.). Egli descrive l’uva di quest’area come «la sola ad essere rinvigorita dalla nebbia», da cui si vuole derivato il nome “Nebbiolo”, ma è citata anche da altri grandi scrittori latini, quali Virgilio, Strabone, e Columella.

Con il Medioevo il vino divenne il principale prodotto del territorio e una risorsa fondamentale per l’economia: ben lo sapevano i monaci di Cluny, noti per le capacità, l’impegno e la lungimiranza nella coltivazione della vite e per aver fatto grande agli occhi del mondo la Borgogna viticola. A Ghemme possedevano terreni e vigne, oltre alla chiesa di San Pietro (dipendente dall’abbazia di San Pietro di Castelletto Cervo), oggi scomparsa: Ghemme appartiene alla Federazione Internazionale dei Siti Cluniacensi (Fédération Européenne des Sites Clunisiens), riconosciuta dal Consiglio d’Europa quale Grande Itinerario Culturale. Ai piedi di una vigna dei monaci cluniacensi, vicina al paese, sorgeva la cappella di S. Fabiano, nel Seicento trasformata in piccola chiesa e che si può vedere ancora oggi. Sulla collina che domina l’abitato invece altri due edifici religiosi caratterizzavano il panorama: le chiese di San Vito, di cui rimangono ancora delle tracce murarie, e quella di San Giacomo al Motto. Qui sorgeva anche una torre di vedetta, pur soggetta al cucuzzolo della vicina collina, chiamato il Monte Chiaro, mentre un’altra, la Torrazza, era posta a controllo della strada che attraversava le colline, probabilmente da riconoscere nella “caralis de la turre” ricordata in un’antica pergamena, vicino alla vigna che oggi è conosciuta come il Ronco del Frate. Il Motto, Monte chiaro, Torrazza, Ronco del Frate sono appezzamenti della famiglia Ferro e, dai toponimi di altri terreni di proprietà, derivano i nomi dati ai vini Ghemme D.O.C.G. e Ghemme Riserva D.O.C.G.

Nella seconda metà del Quattrocento e nel Cinquecento nobili famiglie novaresi e milanesi acquistarono campi e vigne, attratte dalla bontà del vino, assai apprezzato anche dalla corte ducale dei Visconti e degli Sforza. Le colline si presentavano come «una perpetua schiera» di viti, come scrisse il celebre storico Paolo Giovio. Nel narrare le guerre fra Francia e Spagna, egli ricorda gli alloggiamenti a Ghemme delle truppe spagnole, molto soggette alle colline, dalle quali i nemici avrebbero potuto «far danno… drizzando l’artiglierie di quello altissimo luogo». Probabilmente per questo fu realizzato qui un castello, costituito da quattro torrioni angolari, collegati da una cinta di mura, e un corpo centrale. Nacque così il Castello Cavenago, che ancora oggi svetta sulle colline: il suo nome si deve alla famiglia dei conti Cavenaghi che lo possedeva e che lo trasformò nel corso del Seicento in una residenza di villeggiatura. Era definito nel Settecento «nobile ed ameno soggiorno di campagna del sig. marchese Allevi», nuovo proprietario, nelle cui cantine conservava il vino dei suoi preziosi “ronchi” (vigneti collinari), il migliore che produceva.

La particolare qualità del vino ghemmese, che lo rese uno dei più ricercati sulle mense nobili, è testimoniata anche dallo storico Francesco Antonio Bianchini che racconta nel 1831 come le famiglie dell’aristocrazia di Novara e di Milano usassero aprire, ogni anno, una bottiglia di vino di Ghemme la sera della vigilia di Natale per lo scambio degli auguri, davanti al camino nel quale facevano ardere essenze profumate (melarosa, ginepro e lauro), celebrando così la notte più importante dell’anno.

L’Ottocento vide la nascita di cantine moderne, attente alla coltivazione, ma anche alla vinificazione, che iniziarono l’esportazione, particolarmente negli Stati Uniti, dove il Ghemme era definito «medicinal corroborant wine». Alla fine del secolo Antonio Fogazzaro lo ricorda in “Piccolo mondo antico” (1895), ingrediente fondamentale nel pranzo organizzato dalla marchesa Maironi. Gli scrittori ne decantavano le qualità: «rallegra lo spirito, eccita la fantasia, promuove l’appetito» (Luigi Nicolini, 1903); «Vin robusto e generoso / come il cuore di nostra gente» (Pinet Turlo, 1930); «vino famoso», «il più degno e aristocratico vino italiano», «eccellente, prim’ordine» (Mario Soldati, 1959); «splendido nettare, degno di onorare ogni mensa, da quella semplice e frugale di un simposio familiare a quella raffinata ed elegante di un banchetto ufficiale» (don Angelo Luigi Stoppa, 1977).

Negli anni Sessanta del Novecento giunse la Denominazione di Origine Controllata (DOC), a suggellare l’impegno ed il lavoro dei viticoltori, e nel 1997 la Denominazione di Origine Controllata e Garantita (DOCG), a coronare quel percorso di crescita qualitativa che i vignaioli ghemmesi hanno intrapreso sia in vigna sia in cantina, e che affonda le proprie radici in una tradizione millenaria.

VISTA DI GHEMME DALLA  TORRE DI VEDETTA SAN GIACOMO AL MOTTO